mercoledì 30 gennaio 2013

Autorità e autorevolezza

Sono stato portato a pensare un pò meglio alla differenza tra queste due parole da uno studente. Ha fatto un giretto negli USA parlando anche con direttori di importanti dipartimenti e si è accorto che dall'altra parte dell'oceano la percezione di alcuni grandi vecchi, da noi piuttosto osannati, è alquanto differente.

E la maggiore differenza sta proprio nella distanza tra queste due parole. Da noi le persone conservano, anzi aumentano nel tempo, la loro autorità, così in maniera quasi ineluttabile. E' un processo irreversibile che solo talvolta finisce con la pensione. Spesso si perpetua anche oltre.

Non è la stessa cosa purtroppo per l'autorevolezza. Questa invece conosce un picco e poi inevitabilmente decresce. E mentre da altre parti è questa la qualità che conta, da noi no, vale solo l'autorità.

Ne ho esempi tutti i giorni. Capita che qualcuno nel mio dipartimento di fisica non perda occasione per rimarcare che c'è una differenza tra ricercatori e professori associati o ordinari, dimenticando che molti si trovano in una condizione o nell'altra solo per casualità. C'è chi si è trovato al momento giusto nel posto giusto, a parità di bravura si intende.

Eppure io non vedo tutta questa differenza. Certo ci sono persone autorevoli che hanno avuto e di solito continuano ad avere molte responsabilità, ma se apro i database delle pubblicazioni, termometro della propria attività, scopro che molti ricercatori sono messi assai meglio di tanti professori.

E magari all'estero sono anche più apprezzati, mentre qua devono sentirsi dire che non dovrebbero nemmeno partecipare a certe riunioni, perchè, si sa, loro sono solo ricercatori.

Poi mi guardo intorno e vedo che questo problema travalica i confini del mio dipartimento e circonda la vita di questo paese.

Il potere, di qualunque tipo, democratico si intende, si fonda sulla stima, sul rispetto e sulla autorevolezza della persona.  E' questa che ci porta a fidarci di lui, sia medico o politico.

Sento un grande bisogno di autorevolezza, mentre ne ho le scatole piene delle persone autoritarie.


martedì 15 gennaio 2013

Il prezzo della conoscenza

La morte di Aaron Swartz ha riportato al centro dell'attenzione quello che chiamo il prezzo della conoscenza. Il terribile crimine di cui era accusato e chi gli faceva rischiare 35 anni di carcere era di avere sottratto e poi resi disponibili articoli scientifici da un database dell'MIT.

La questione che forse non è nota a tutti è cosa significa e quanto costa accedere alla conoscenza scientifica oggi. 

Le Università e gli enti di ricerca, le fondazioni, i privati finanziano la ricerca di base o applicata. I risultati degli esperimenti vengono pubblicati su riviste specializzate e selezionati tramite un metodo di revisione tra pari (detto peer review). Vuol dire che quando penso di avere raggiunto un risultato di un certo spessore scrivo ad una rivista di quel settore, scegliendola in base al suo impact factor. Questo numero misura quanto è popolare (e dunque autorevole) in base a quante volte vengono citati gli articoli ivi contenuti.

All'autore dell'articolo spesso viene richiesto un costo per pubblicare. Il suo lavoro sarà analizzato da terze persone, del suo settore e a lui anonime, che cercheranno per quanto è possibile di capire se si tratta di un risultato nuovo, importante e degno di menzione. Inoltre lo aiuteranno magari a migliorarlo, oppure lo rifiuteranno. Questi revisori (anche io sono tra di loro e anche di qualche rivista importante) non sono pagati ma già il fatto di essere chiamato in causa è un riconoscimento prestigioso, anche se tutto il lavoro è fatto in modo anonimo.

Il sistema in teoria dovrebbe garantire un avanzamento della conoscenza, scremando i lavori non di buona qualità e pubblicizzando i risultati migliori. Nella pratica non è sempre così, perché un po' di autoreferenzialità esiste sempre. Ovvero se una firma famosa manda un lavoro è sicuro che quello avrà più probabilità di essere pubblicato rispetto a quello di uno sconosciuto, pure se contiene delle inesattezze.

L'articolo viene dunque pubblicato e, a parte pochi casi che consentono un open access, quasi tutte le riviste, e di certo le più quotate, si fanno pagare per poterlo leggere.

Dunque una istituzione di ricerca paga per fare la ricerca, paga per pubblicare e paga poi per leggere quanto è stato pubblicato.

Per i bilanci traballanti, quello della mia Università per esempio, tali prezzi non sono sostenibili, e dunque niente riviste scientifiche. Ci si arrangia con le banche dati degli enti in cui si lavora. Ovviamente se già in Italia vi sono difficoltà è facile immaginare come nei paesi emergenti e in via di sviluppo questo problema sia estremamente sentito.

Cosa vuol dire essere tagliati fuori? Vuol dire non potere accedere a quanto di più vitale ci sia oggi: le informazioni. Vuol dire non potere crescere una classe di persone competenti, vuol dire aumentare il gap tecnologico tra ricchi e poveri.

E' evidente che gli editori hanno anche loro dei costi che qualcuno deve sostenere. Non so fare loro i conti in tasca, ma così ad occhio mi pare che i ricavi dovrebbero essere ingenti.

Questo dunque è il problema di fondo: il prezzo della conoscenza, se debba essere appannaggio di chi se lo può comperare o se invece sia più giusto che sia disponibile a tutti, in forme e modi da stabilire.

E' triste pensare che probabilmente neppure la morte di una così brillante mente riuscirà a cambiare questo meccanismo, in un mondo in cui tutto è a pagamento, perfino la conoscenza.